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298 il denaro


Fra quegli uomini, sotto quel giogo, in quelle grigie stanze d’ufficio dove le brevi e tempestose apparizioni del principale apportavano spesso bagliori e scoppi di lampi e tuoni, al tichettio della Remington la vita di Veronetta si svolgeva, plumbea, scandendo la sua tristezza sulle troppo esatte pulsazioni di un lavoro non voluto, non sentito, non amato.

Solo un cortile separava gli uffici dal salone di tessitura nel quale Anna Longhena per sedici anni aveva intrecciato il suo logorante lavoro alle sue fresche canzoni: nel quale era caduta per sincope, senza una parola, senza un sospiro, senza un gemito, come un uccellino piomba fulminato dal ramo, a mezzo trillo, col becco in aria. Ma Veronetta non vi era mai entrata.

Tuttavia, con la tormentosa facoltà d’allucinazione che scolpiva e illuminava dinanzi ai suoi occhi i fantasmi del cervello, Veronetta scorgeva nettamente il cadavere, stecchito, nero, piccolissimo, sul pavimento oleoso, fra un telaio e una cassa di spole. Piccolissimo, un punto, un nulla, in tutto quel moto, quell’assordìo; ma terribile.