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290 il denaro


nunziarono l’alba, i cirri paonazzi e rosei che nel cielo si tenevano infantilmente per mano scorsero, pel vano del balcone, Veronetta Longhena curva a scrivere, a scrivere, col quaderno in grembo, a pie’ del letto infiorato di aspirèe sul quale riposava la tessitrice morta.

Ma la morta sorrideva, calma, beata. Aveva servito: serviva ancora, fino al minuto in cui l’avrebbero inchiodata nella cassa e deposta nella fossa comune. Ella sapeva che la sua figliuola non era simile alle altre, e che bisognava lasciarla fare, perchè uno spirito misterioso guidava i suoi atti verso un misterioso fine. Scarmigliata, cogli zigomi accesi, col cerchio rovente della febbre alle tempie ed ai polsi, Veronetta Longhena scriveva, vegliando la salma della madre, come avrebbe pregato per lei, a mani giunte, in ginocchio.


Per parecchi giorni visse in solitudine fiera, nutrendosi di pane e latte, rimanendo ore ed ore immobile, chiusa in apparente inerzia, e riempiendo poi fogli e fogli di una fitta, disordinata scrittura. Non aveva più messo piede nella scuola. Varie compagne le inviarono lettere di conforto: ella non rispose. Non amava