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262 “mater admirabilis„


bambino pallido di stanchezza, che le lascia cadere la testolina su di una spalla: lo spoglia, lo mette nel suo lettuccio, gli fa con l’indice, sulla fronte, un segno di croce: come le altre sere, come domani, come sempre, sino a quando sarà più grande.

Poi si mette al tavolino, e, fra uno squillo e l’altro di campanello, fra una domanda e una risposta, e il passare e il ripassar della gente dinanzi alla vetrata (è la vetrata, o è un vertiginoso schermo cinematografico?...) sferruzza maglie di lana pei combattenti: come ieri, come domani, come sempre, sino alla fine della guerra.

Alle dieci, chiuderà il portone. All’alba, si alzerà per riaprirlo. Nulla nella sua vita è mutato. Solo, il suo figliuolo è morto: in poche ore, per lo scoppio d’una bomba, sul letto d’un ospedaluccio da campo. Ella non ha potuto nè vederlo, nè curarlo, nè benedirlo. Ma non ha il tempo di piangere, di abbandonarsi al dolore. Non ha mai avuto il tempo di piangere, nella vita: null’altro ha potuto, null’altro può che tacere, curvarsi, lavorare, lavorare, lavorare.

La sua testa di un giallo avorio, intorno alla