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Storia di una taciturna 219


rei cominciare dal principio.... Dio, che pena!... Mio marito.... come dire?... si serviva di me; ma non mi amava. Era il mio padrone. Io ero il suo cane. Nient’altro, nient’altro.... Anche mia madre, press’a poco, aveva subito lo stesso destino: io l’avevo veduta, d’anno in anno, cancellarsi, dissolversi sotto la mano di ferro di mio padre. Padre, veramente, nel mio cuore, io non l’avevo mai potuto chiamare. Mi batteva: non esigeva da me che silenzio, obbedienza, servitù. L’ho odiato. Molti figliuoli odiano così il loro padre, nell’intimo. È un grave peccato, questo?

— Sì. Ma andate avanti, povera anima.

— Mio marito non mi tiranneggiò, nel vero senso della parola. Vi sono uomini che si fanno adorare, maltrattando con violenza di passione la creatura che posseggono. Ma lui si accontentò di tenermi in tranquillo dispregio, lasciando crescere felici e liberi i figli. E i figli mi compatirono, certo. Mi disprezzarono anch’essi, forse. Io avevo troppo imparato a tacere, a vivere compressa e silenziosa, fin dall’infanzia. Non mi difesi, non cercai di conquistarmeli, mi rinchiusi in me. Nessuno penetrò nella mia vita interiore. Nessuno, da quando