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Falena 47


Dove sarebbe andata a finire? Non lo sapeva.

Passò innanzi ad altre case note, a caffè, a teatri dove aveva brillato essa pure. Una trattoria le ramentò una cena durante la quale aveva gettato dalla finestra, ai monelli, una quantità enorme di cibo — questa l’aveva in mente sopratutto. Passò innanzi all’Ospedale; lì l’avrebbero forse accolta, aveva la febbre! Ma da otto giorni appena ne era uscita; ne era uscita coll’uggia dei dormitori, delle medicine e della schiavitù. Meglio morire.

Due spazzini sbarravano la strada, armeggiando colle scope, le mani coperte da grossi guanti di lana, un sacco sulla testa. Ella si offerse loro per un pezzo di pane. Le risero in faccia, e uno d’essi sollevato sulla scopa un mucchio di immondizie fece atto di gettargliele addosso.

Non fermò più nessuno. Andava, andava, andava, sperando vagamente che un precipizio le si aprisse sotto i piedi, istantaneo. Non vide nè riconobbe più nulla; si trovò senza cappello, ignorando come; non pensava nemmeno a chiudere la giacca, lasciando scoperte le piaghe rosseggiami del suo povero petto; e tossiva.

Cadde finalmente, provando un senso di sollievo, sentendosi vicina alla liberazione. Colle membra rattrappite, riposava, la schiena appoggiata al muro, le braccia intorno ai ginocchi. Non aveva più fame; soltanto il freddo la molestava ancora.