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ganti al posto delle braccia, e una parodia di cappello sulle testine ingenue e scapigliate?
Così era Diana, la nipote della baronessa.
Io non voglio dire che natura l’avesse fatta bella e che il collegio, pari ad un genio malefico, si fosse preso il barbaro piacere di imbruttirla. No, ma via, fra tutt’e due erano andati d’accordo.
Alta, magra, colle spalle aguzze e, quel ch’è più, leggermente incurvata per l’abitudine di ricamare a telaio, col petto depresso, colle gambe troppo lunghe, presentava un insieme così poco armonico, così fuori delle leggi convenzionali dell’estetica che a guardarla correva subito sulle labbra l’aggettivo di poco vezzosa, e si capisce come il marchese avesse usato brevemente per lei l’occhialino d’oro, poichè il suo occhio raffinato e sensuale non aveva incontrato che delle linee spezzate o degli angoli acuti là dove era abituato a cercare le molli curve procaci.
E che valore poteva avere il sorriso di Diana, semplice e infantile, sbocciante sì fra due labbruzzi rosei ma privo di quella finezza che sottolinea l’espressione?
I suoi denti erano candidi ma ineguali; il profilo soverchiamente accentuato; gli occhi sereni, vivi, ma senza un colore deciso. Si vedeva splendere un’anima in quelle pupille pallide e tremolanti, ma non si avrebbe potuto dire se fosse un’anima di donna, d’angelo o di bambino.