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Che dire poi della squisita sua eleganza, del suo tatto perfetto? Quello sguardo a tempo, quella parola in misura, quel contegno ardito senza spavalderia e sicuro senza fatuità; quel garbo insinuante di pigliar terreno, quello spirito di capire a volo, quella malizia decente, quei frizzi e la politica insuperabile di approfittare dell’occasione...

Sessantacinque anni? Ebbene, signora, cosa sono sessantacinque anni per quell’amabile marchese Gili, sempre giovane, sempre bello? Io sto forse per commettere una indiscrezione, ma se mi promettete il silenzio vi condurrò nel santuario dove il sarto e il parrucchiere contendono alla natura il privilegio di fabbricare un uomo.

Non sono più i tempi di Eliogabalo e di Sardanapalo, di Caligola e di Nerone, quando si vedevano i muri tappezzati di perle e lastre d’avorio mobili sul soffitto, che si aprivano in certe ore beate per lasciar piovere fiori e acque odorose.

Siamo lungi — ma tutto quanto il lusso moderno ha inventato per blandire i sensi e scuotere la immaginazione si era dato convegno nel gabinetto del marchese. Le pareti, che gli antichi Romani avrebbero ricoperte di marmi tolti dalla Fenicia, da Laconia, dalla Cappadocia, da Numidia, da Chio, da Caristo frammezzati al legno di cedro e all’orientale alabastro, scomparivano qui dietro le pieghe flessuose di una