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pasto parrà forse un confronto esagerato — ma è certo che Cristina aveva fame di vendetta.
Nell’ora poetica del tramonto, durante una delle più belle sere d’estate, stava la famigliuola raccolta in giardino.
Enrico, seduto in mezzo ai fiori, li gettava a fasci colle sue manine sulla testa di papà, che se ne mostrava beato.
Diana, in piedi, appoggiata al suo salice favorito, aveva trovato, senza cercarla, una di quelle pose che fanno andare in estasi i pittori. Gli ultimi raggi del sole la illuminavano a tergo circondando la sua testina di uno sprazzo di luce — e quella luce calda e vaporosa sembrava dar vita ai biondi capelli che le volteggiavano leggieri e dorati sulla nuca.
La parte superiore del volto chino e sorridente restava un po’ all’ombra, ma il contorno delle guance delineavasi sotto la pelle delicata, che lasciava scorgere una rete sottile di venuzze violacee soavemente diffuse. Le sue carni avevano la trasparenza morbida e giovanile dei fiori di maggio e delle frutta non ancora côlte.
Così com’era, appoggiata all’albero, ridendo tratto tratto agli schiamazzi del bimbo, faceva muovere in senso ondulatorio l’esile fusticino del salice che sguazzava allora sul suo capo l’ombrello delle foglie pallidamente inargentate.