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anima mite, manchevole di qualsiasi lievito di invidia, si univa esso pure al coro dei parenti inneggianti alla salute, alla floridezza, all’intelligenza di Romolo. Per ciò che riguarda costui nessuna quercia (quelle quercie che gli erano per segreto istinto tanto care) si era mai levata più libera nell’espansione dell’aria e dei venti. Al sorgere divino della giovinezza l’universo fu suo. Ebbe un giorno nella vita in cui, misurando il braccio erculeo e l’intelletto volonteroso, egli potè dire a sè stesso: «Il mondo è mio!» Tutti pensarono intorno a lui: «Chi sa che cosa diventerà!»

E non aveva fatto nulla. Non era diventato nessuno. Il fiore dei vent’anni cadde dalla sua bella fronte orgogliosa senza aver dato un frutto. Tentò vie diverse, ma non ne percorse alcuna. La sterilità pesava sopra il suo ingegno pur tanto agile e pronto. Il volere non andava di accordo col potere, oppure una falsità di ambiente e di occasione gli aveva stroncate le forze creatrici; ma erano soltanto le cause esterne che egli accusava, per modo che avanzando negli anni il suo umore si era fatto iracondo sospettoso e bizzarro.

Prima vittima de’ suoi accessi di bile era naturalmente il fratello che vi opponeva una rassegnazione tutta fatta di umiltà e di sacrificio. Anima candida e mansueta, nutrita di un vero