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vi avevano praticato uno spazio libero rizzandovi un’amaca trovata alla villa, nella quale Lilia faceva la siesta col braccio passato intorno al collo di Ippolito — quel braccio che usciva così bianco e morbido dalle maniche aperte che ella soleva portare negli abiti di casa, ricadenti lungo il fianco a guisa di ali in riposo — e nella gioia di trovarsi tanto vicini e tanto felici rifacevano la storia del loro amore.
Lilia rivendicava il diritto di anzianità avendolo amato per la prima, solo per udirne parlare. Ippolito diceva di averla amata sempre, di averla amata in tutte le cose belle, ne’ suoi sogni e nella sua arte. Narrava la commozione delle lettere che riceveva e il primo dolore che gli cagionò con quella del dodici aprile, asciutta e crudele. Ricordava?
Sì, Lilia ricordava. L’amante dal quale si era staccata e che la inseguiva ancora colla sua gelosia sospettosa, fiutando il rivale, non si era fatto scrupolo di denigrarlo spietatamente in un giornale da lui diretto. Non era forse giunto a stampare per disgustarla che il giovane eroe dell’incendio sarebbe rimasto storpio, cieco e cretino? Ma come spiegare tutto ciò a Ippolito?... Ella disse invece:
— Anche tu sei stato crudele qualche volta.
Ippolito assaporò tutta la dolcezza del rimprovero e improvvisamente, guardandola fissa, le chiese: