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tare; meglio ancora, come un roveto perenne dove bruciasse tra colonne di fuoco un incenso di vita.
Lilia assisteva curiosa e meravigliata a questa fioritura di un’anima sotto il sole dell’amore. La sua commozione però non assomigliava a quella di Ippolito. Fin dove era possibile arrivare coll’intelligenza ella lo seguiva, e la sua facoltà di assimilazione era tale che in certi momenti la fusione appariva perfetta. Comprendeva i suoi pallori e i suoi fremiti, ma non poteva impallidire e fremere ella stessa, perchè in altro modo sentiva e vedeva la vita. Congiunti nell’ardore di un amplesso dove il desiderio e il piacere erano uguali, Lilia sentiva che al di là di quelle labbra virili una sensazione ignota le sfuggiva di continuo, batteva un’ala ch’ella non giungeva ad afferrare. Raddoppiava allora la foga dei baci e gli chiedeva ansiosa: «Sei mio? Sei mio?» al che egli non sapeva rispondere se non stringendola freneticamente contro il suo cuore.
Così eccitati percorrevano i viali folti di erbe selvatiche dove gli scarpini di Lilia non riuscivano sempre a districarsi dai rovi; e quando il sentiero era troppo malagevole egli la portava, raggiante di piacere e di orgoglio, sentendo il bel corpo piegare sulla sua spalla. Il boschetto delle rose li accoglieva nelle ore più calde. Essi