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Una giovinezza del secolo XIX | 41 |
zia e, manco dirlo, fiancheggiata da due grandi guardarobe. Non mi sono mai annoiata in vita mia se non in compagnia d’altre persone.
Come si può essere così nemici di se stessi da non saper reggere a rimanere da soli?
Quando non avevo accanto la zia o la nonna, mi divertivo a contare i travicelli e i rosoni del soffitto spostandoli a mio talento formando nella mia mente altre combinazioni; oppure l’occhio, innamorato sin da allora della bellezza, si sprofondava con intenso diletto sulle ampie tende che, dall’alto delle finestre, scendevano a toccare il suolo ed avevano il fondo del colore del cielo cosparso di ghirlande di rose. Il momento difficile era quello di prendere la medicina. Mio zio Germanico, il dottore, buon uomo se mai ve ne fu, ma di una semplicità ruvida di cardo, invece di una graziosa pillola inargentata o di una bevanda al sciroppo d’arancio, si ostinava ad infliggermi un bottiglione pieno di un intruglio nerastro al quale dovevo i soli istanti amari del mio soggiorno a Caravaggio. Ma anche su questi vegliava l’affetto inesauribile della zia Carolina con dolci ragionamenti, con promesse, con carezze. Un giorno che doveva recarsi a Milano mi chiese che cosa mi avesse a portare se prendevo docilmente la medi-