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250 Una giovinezza del secolo XIX


sentissimo nei più profondi abissi del nostro io? Dobbiamo credere più agli altri che a noi stessi? Sarebbe come disconoscere il più alto suggello della divinità posto sulla nostra fronte. Sono convinta che la forza, dalla quale trassi il modo di resistere alle scoraggianti esperienze della mia giovinezza, fosse appunto questa attitudine sicura della mia coscienza, la stessa per la quale ad onta della mia triste infanzia non mi sono mai sentita interamente infelice. Citare in proposito un verso di Dante può sembrare soverchia presunzione ma, è pur vero che l’uomo, pari alla «fronda che flette la cima» non resiste contro i disinganni se non opponendo la propria virtù.

Siate interni, dice l’Apostolo; queste due parole dischiudono un mondo. I beni esterni vengono e vanno; solo ciò che noi abbiamo nell’anima rimane. Rimane immortale quando il genio di Marco Aurelio, di Leonardo o di Dante ne imprima la vasta orma nei secoli; ma filtra pure modestamente di generazione in generazione, sorretto dalle piccole virtù quotidiane, che formano la dignità della famiglia e una non spregevole forza delle nazioni.


Più avanzavo negli anni e più sentivo svilupparsi