|
Una giovinezza del secolo XIX |
161 |
Era l’ora in cui mio padre stava più a lungo sul divano, immerso in quel suo riposo melanconico che nessuno di noi osava disturbare. Pareva che dormisse; e non dormiva, perchè tra il chiaro e lo scuro i suoi sguardi cadevano su di me; io li vedevo bene ed erano sguardi inquieti e soavi dove la tenerezza si mesceva a qualche cosa di accorato, come un dubbio. Le zie, sedute l’una di fianco all’altra, ritte contro il muro a guisa di due marmoree cariatidi, recitavano mentalmente le loro orazioni. La luce moriva a poco a poco, fuggendo prima dagli angoli, lambendo gli ottoni della stufa, le cornici dei quadri, le bullette del divano, fermandosi un istante tra le pieghe bianche delle tendine, alle quali dava una flessuosità vaga di fantasmi, finchè le tenebre cadevano improvvisamente sul nostro silenzio. Non si scorgeva più nulla, nè mobili, nè persone, ma al posto delle zie si accendeva un piccolo punto luminoso, come un occhio di fuoco. Era il sigaro della zia Nina che passava poi alla zia Margherita. Ora la brutta moda delle donne che fumano è purtroppo entrata nei nostri costumi; non così allora, si che questa abitudine delle mie zie, faceva parte della loro originalità, ed era esente da qualsiasi civetteria, molto più che non si trattava di eleganti sigarette,