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Una giovinezza del secolo XIX | 159 |
ed occulta, come quella che si forma negli abissi del mare, dava fosforescenze di luce e incanti di forme all’anima rinchiusa. Non odiavo, non mi vendicavo, non facevo nè volevo male ad alcuno; mancando intorno a me l’ossigeno di vita vivevo altrove, nell’ideale, nel sogno che erano per me la sola verità, la sola felicità, qualche cosa di indivisibile dalla mia carne e dal mio sangue.
Il nostro appartamento era ampio e per buona metà aperto sulla vista di tre o quattro giardini soleggiati: lo studio di mio padre si trovava da questa parte e la camera da letto anche; ma la mia giornata si svolgeva tutta intera nella sala da pranzo che era la più brutta, angusta, con una sola finestra a tramontana, col parato dei muri di un colore fosco che aiutava a renderla tetra e malinconica: essa fu per me il carcere di quelli che chiamano i più begli anni della vita. Seduta fin dal mattino, agucchiavo senza posa, tenendo qualche volta un libro sui ginocchi, nascosto dietro il cuscinetto che, a quei tempi ignoti alla macchina da cucire, serviva per appuntare orli e sopragitti. Oh! le giornate d’inverno trascorse in quel salottino dalla tappezzeria cupa, davanti al tavolinetto dove ammucchiavo i miei cuciti, i rammendi che non finivano mai.... Quanta neve ho