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Una sera — era il mese d’aprile — pioveva, e Giulia a lume spento ascoltava il rumore dell’acqua sui vetri. Forse pensava, la poveretta, alle sue illusioni svanite, a’ suoi castelli di fata, ai bei sogni de’ suoi quindici anni.

Carattere più affettuoso che ardente, più tenero che appassionato, soffriva in silenzio e senza reazione. I morsi violenti della gelosia, dell’orgoglio e della vendetta non turbavano il suo dolce cuore innocente. Piangeva senz’odio — e le lagrime sgorgavano abbondanti da’ suoi begli occhi, come dagli occhi sereni d’un bambino.

Ad un tratto trasalì guardando verso la porta.

Il signor Prospero l’aveva aperta con una spinta poco accademica e presentavasi ansante, rosso in viso più del solito, e — indizio grave — coi capelli scomposti.

— Quel briccone di mio nipote! esclamò brandendo la canna a guisa di durlindana.

— Cos’ha fatto? mormorò Giulia spaurita.

— Ha fatto.... ha fatto che è un briccone! L’ho sempre detto io che non mi fidavo delle sue arie diplomatiche — diplomatico lui!... è un brigante, un assassino, un Ninco Nanco.

— Signor Prospero....

— Un Cipriano La-Gala, un Pasqualone — no — un Bernardoni — nemmeno — in somma non so più quello che dico, ma mi intendo io.