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vitù, aveva licenziato il cuoco e il cameriere; restavano due donne sole.
Giulia aveva una bellissima vettura da nolo che la veniva a prendere ad ore fisse — non si vide più — Olimpio pretese essersi bisticciato col padrone.
Due vasi altissimi del Giappone torreggiavano sulla caminiera del salotto — un bel giorno scomparvero.
Olimpio, interrogato, rispose che li aveva prestati a Roberto per servirgli di modello in un quadro storico di grandi dimensioni, che doveva figurare alla prossima mostra dell’Accademia.
Molte volte giungevano a domicilio certe lettere sudicie, ingommate con negligenza o senza gomma affatto e chiuse da una goccia smisurata di ceralacca vermiglia coll’impronta di un ditale — lettere di un certo odore, d’un certo colore tutto proprio.
Giulia nel ricevere quelle lettere rabbrividiva; le consegnava tremando a suo marito, e suo marito le spiegazzava con indifferenza.
Alle lettere seguirono le visite di personaggi equivoci; giovinotti gagliardi, dalla fisonomia risoluta, che dichiaravano di non voler partire senza aver parlato col signore.
Ma il signore non era mai in casa — qui sta il guajo — e lettere e visite si moltiplicavano. Giulia non si faceva vedere quasi più in società; viveva ritirata e sola, in preda alle sue malinconiche riflessioni.