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una volta colle sue ali d’angelo; per un istante aveva creduto all’ebbrezza della gloria, per un istante il fuoco sacro che Prometeo rapì agli dei divampò nella fantasia sognatrice del giovane artista — ma fu un lampo, fu un sogno — aveva intraveduto un lembo di cielo e il cielo scomparve — e ripiombarono più fitte le tenebre, e la mediocrità l’involse, lo strinse il bisogno, caddero le ali, si spense la face.... addio gloria!

Fu allora che conobbe Olimpio e s’attaccò, lui debole e sfortunato a quell’atleta felice — il colosso di granito tollera che a’ suoi piedi la formica cerchi un ricovero.

Olimpio tollerò Roberto — vi si abituò — prese il vezzo di tenerselo al fianco — se lo fece amico. E gli diceva: Roberto! collo stesso accento di Max, il mio cane. Ma non serve; il povero pittore l’amò, compatì le sue durezze; la sua calma abituale mise in conto di bontà, la sua indifferenza prese per tolleranza e i suoi gusti scialaquatori per indizio d’animo generoso. Roberto parlava d’Olimpio come della provvidenza e — si capisce — questi discorsi equilibravano sufficentemente la sua fama di scapestrato.

Qualcuno diceva: Come marito sarà forse discutibile, ma in amicizia non v’ha chi l’eguagli.

E intanto egli continuava la sua esistenza sfrenata.

A casa vi andava soltanto per il pranzo. Mangiava