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Se Olimpio dormisse non lo so. Era già alto il sole, e Giulia svegliandosi di balzo girò lo sguardo rapido per la stanza, vide Olimpio, respirò pieno e largo come da dodici ore non aveva fatto, sorrise, lisciò i capelli, si avvicinò cheta cheta a contemplarlo. Così divinamente bello! con quella bocca semichiusa di corallo vivo, con quelle linee del volto così seducenti anche nell’immobilità del riposo, e le guancie pallide, e il leggiero cerchio azzurro sfumante sotto l’ombra delle palpebre, e i biondissimi capelli aerei, vaporosi, aureola di cherubino sulla testa di don Giovanni.

Lo guardava e ripensò alla cameretta del tutore, agli scacchi, alla sua vita di fanciulla: Dio che noja! Ripensò la chiesa parata a festa, i lumi, i fiori, l’abito, l’anellino.... eccolo al dito, lucido, brillante il suo anello di sposa: eccola felice, sì, aveva già dimenticato le pene, di quella notte, aveva perdonato ad Olimpio prima che Olimpio potesse scolparsi, non vi pensava più. Si scostò dal letto, girellò per la camera, toccò il cappello di lui, la cravatta che giaceva spiegazzata per terra, la distese colle sue manine e la pose sulla sedia, in vista.

Si rifece accanto al letto, si chinò un poco, accarezzò col dito, leggermente, una ciocca di quegli splendidi capelli...

— Ah!...

Egli l’aveva cinta con un braccio.