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Roberto in un angolo bujo finiva di mangiare una zuppa che era il principio e la fine di tutti i suoi pranzi. Egli era bensì disposto a fare dei debiti — ma per lei — quanto a sè viveva come un anacoreta, risparmiando un piatto per offrirle un mazzo di fiori. Esultò vedendo l’amico e lo accolse con ambedue le mani tese:

— Che miracolo in questi luoghi! come stai?

Olimpio strinse quelle mani — e non un fremito lo scosse — non una piega increspò la sua fronte — nessuna voce dalla coscienza gli gridò: arrestati, Giuda!

Il cuore leale di Roberto si commosse a tutte le sventure cui gli piacque tessere in ben ordinata fiaba. Convenne di avere dei torti, ma si disse realmente pentito e deciso a mutar regime.

Narrò, col fazzoletto sugli occhi, la perdita dello zio Prospero e dell’eredità fatta distribuì le parti con tanta saggezza che l’amico pensò: «È uno sventato ma ha buon cuore.» E a voce alta:

— Quanto è diversa la mia fortuna dalla tua!

Olimpio che era venuto all’osteria senza un piano tracciato, nell’intento solo di tastare il terreno per improvvisarvi poi qualche bricconata delle sue, osservò in Roberto una tristezza insolita, un abbattimento poco in armonia colla sua parte di amante fortunato.

— Ti lagni a torto, disse con affettuosa semplicità.