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suo vestito nero — guidando con mano maestra dall’alto di un tilbury un bajo puro sangue.

Egli ebbe il successo più elegante di quella giornata e discendendo i bastioni verso Porta Venezia incrociò un coupé azzurro, dal fondo del quale due occhi neri lo saettarono.

Olimpio si morse le labbra, frustò il cavallo, che, sapendosi innocente, protestò rizzandosi sulle gambe posteriori, e spingendolo a corsa sfrenata si perdette nei bastioni solitari di Porta Vittoria.

Arrivato a casa sua — non abitava più le due camerette borghesi ma un grazioso appartamentino da scapolo — consegnò le redini al groom e si chiuse nella sua camera mormorando fra i denti:

— Ho deciso; ella sarà mia!

La sera di quel medesimo giorno nessuno lo vide nè al teatro, nè al club. Chiuso in un modesto pastrano, col cappello basso e guanti scuri, s’era avviato alla povera osteria dove Roberto compiva da anni ed anni il suo magro desinare.

Olimpio era così fatto che i più rapidi passaggi lo lasciavano insensibile. Dissi altrove che egli si trovava sempre bene dovunque, purchè facesse a modo suo. Entrò con passo sicuro e coll’aria di un uomo che è abituato a sedersi tutti i giorni davanti ad un tovagliolo di cotone gustando con serena compiacenza una porzione di trippe all’aglio.