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vide i due accomodati sui poco morbidi cuscini frustò il ronzino; Giulia non aveva avuto tempo di trovare una maniera qualsiasi di giacitura e mostravasi a disagio; Pompeo si strinse a ridosso del legno per lasciarle il maggior spazio possibile — nullameno le loro spalle si toccavano quasi — distese il suo plaid sulle ginocchia di lei e voleva ad ogni costo levarsi il soprabito perchè ella si lagnava del freddo.

Giulia non lo permise.

La giornata era nebbiosa e umidiccia; le vaste campagne milanesi si stendevano come un immenso lenzuolo bigio sotto un cielo del medesimo colore e la uniformità del paesaggio veniva rotta soltanto dai nudi rami degli alberi sui quali saltellavano i passeri mattutini.

Giulia tolta dal suo letto due ore prima del solito provava dei brividi voluttuosi in tutto il corpo e un desiderio infinito di riposo, di tepore — dolce stato di ebbrezza tranquilla, direi quasi intima, che le faceva chiudere le palpebre e sognare un mondo imaginario.

L’ondulamento delle molle, la brezza che l’accarezzava di sotto il velo del cappello, la luce pallida — più penombra che luce — soavemente diffusa sull’aperta campagna e Pompeo che le stava allato come un angelo tutelare, erano — è d’uopo convenirne — ausiliari potenti di quell’ebbrezza.