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nome. Nelle ore in cui, Cenerentola solitaria, era obbligata a starsene in cucina, ritta accanto al fuoco, lo tracciava con un fuscello, nella cenere.
Nel rovescio delle imposte, negli angoli oscuri delle muraglie, sul margine del calendario, dappertutto dove una matita poteva giungere, le E si succedevano accarezzate, prolungate in svolazzi.
Sull’uscio della sua camera, accanto al suo letto, dove nessuno poteva vederla, un’E maiuscola era intrecciata ad un T — ed ogni sera, prima di coricarsi, Teresina baciava quel monogramma come avrebbe baciata un’immagine benedetta.
Tutte le sue azioni restavano involontariamente sottoposte al pensiero dominante. Si muoveva, parlava, come se Orlandi la vedesse. Talvolta sorrideva nel vuoto, coll’allucinazione del caro volto davanti agli occhi. Prendeva l’abitudine di interrogarlo, di chiedergli il suo parere. L’illusione era così viva che alcune sere, mentre si spogliava, gettava un grido di spavento, sembrandole che Orlandi fosse lì.
In qualunque luogo e in qualunque ora il giovane le fosse apparso, non poteva sorprenderla, perché ella lo aveva sempre con sé; si meravigliava anzi di non vederlo comparire alle sue potenti invocazioni.
Si scrivevano spesso. Queste lettere oramai formavano un piccolo volume che ella non riusciva piú a nascondere in seno. Dopo lunghi dibattimenti