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nei banchi deponevano sulla cornice, fatta a modo di davanzale, il libro, gli occhiali, il fazzoletto. Tutti si mettevano comodi, allargando i gomiti per non essere troppo pigiati, raschiandosi in gola e abbandonandosi di peso, colla testa in dietro, il naso per aria, emettendo un piccolo sospiro rassegnato, quasi a dire: Ci siamo.
Il curato di San Francesco predicava male, con una voce monotona sempre afflitta da raucedine; le sue variazioni sul Vangelo non avevano originalità né vigore. Egli stesso non vi pretendeva; lo capiva forse di non essere ascoltato; e vedendo quelle teste abbassarsi via via sui petti, ciondolanti, vinte dal sonno; vedendo quella interminabile fila di sbadigli, quella immobilità rigida dei corpi intorpiditi, egli, il buon curato, precipitava le parole affogandole in gola, troncando le finali; finché la predica si riduceva ad un mormorio indistinto, dolce come una ninna nanna, piú dolce, piú cullante che mai in quella brutta giornataccia di novembre, propizia al sonno.
Stretta contro a un pilastro, quasi per trovarvi una nicchia, Teresina non ascoltava nemmeno lei.
Sulle prime era stata un po’ distratta, guardando la gente che arrivava in ritardo, che non trovava un posto, e che lo cercava insistentemente facendosi largo tra la fila degli ombrelli gocciolanti, che rigavano il pavimento.