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296 | Novelle gaje. |
mi, compreso da un sentimento arcano che pareva pudore.
E partì, barcollando giù per la buia scala. Giunto nella via, si guardò attorno come per orizzontarsi, per essere sicuro di non aver sognato.
Una brigatella di studenti passava schiamazzando.
Patrizio ritornò col pensiero ai suoi compagni lasciati sull’altra sponda del Ticino e sorrise al destino bizzarro che gli aveva fatto terminare così platonicamente una partita incominciata sotto tutt’altri auspici.
Dormì poco e male all’ombra cosmopolita della Croce Bianca, nè alla mattina destandosi e aprendo le imposte si curò di verificare se la cappellaia dirimpetto aspettasse gli uccelli di carta, mostrando di cucire le fodere di raso accanto ai vetri.
Si alzò nervoso e impaziente. L’antico Patrizio era in lotta col nuovo — il libertino combatteva ancora, per l’onore delle armi, coll’innamorato.
Scoccarono le dieci: Patrizio pensò che era ora di farla finita in un modo o nell’altro.
S’avviò bel bello alla casa di Gildo, salì i gradini, guardò l’uscio e lo vide aperto — entrò nella camera — deserta! Il letto vuoto, i cassettoni rovesciati, le sedie fuori di posto — una donna di servizio scopava sulla soglia.
La bella paradisea dalle ali azzurre era volata via.
Fu allora che cominciò per Patrizio una fase di attività prodigiosa e di passeggiate interminabili su e giù per Pavia, rovistando in tutte le case, spiando tutte le finestre, seguendo ogni persona che alla lontana rassomigliasse, sia pure come uomo o come donna, il suo perduto Gildo.