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280 | Novelle gaje. |
facile poterlo rendere ed io non lo dimenticherò. Come ti chiami?
— Gildo.
— Va bene. Ma se la memoria non mi tradisce, io devo aver ricevuto qualche pugno da quei birbanti — qui, là, un po’ dappertutto. Ahi! mi sento le ossa indolenzite. Spero bene, Gildo, che mi lascerai dormire nel tuo letto questa notte.
Pare che ciò non entrasse nei progetti di Gildo.
— Con che cuor... — incominciò Patrizio modulando il ritornello di una canzonetta che era allora in tutta la sua voga. — Con che cuor... mandarmi via in tale stato? Aspetti forse qualcuno, matricolino?... Se non è che questo, io sono un compagno discreto; mi basta una sedia e guarderò tutta notte verso il muro.
Gildo arrossì come una bragia e si affrettò a rispondere:
— No, no; restate pure.
— Resta, matricolino. Gli studenti, come gli antichi Romani, si trattano fra loro col tu.
Per quanto Patrizio volesse portarle con disinvoltura, egli le aveva proprio buscate sul serio e fu con un senso profondo di benessere e di stanchezza che si lasciò cadere sul letto, senza nemmeno svestirsi, celiando sempre, chiedendo dei sigari e del vino, intanto che le sue palpebre si chiudevano, finchè un sonno greve gli troncò il motteggio sulla bocca, lasciandogli ancora le labbra dischiuse al sorriso.
Dormiva placido sotto l'aureola dei capelli biondi — quantunque il suo non fosse il sonno dell’innocenza