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276 Novelle gaje.


Dunque Patrizio, dopo aver pranzato, non suggerendogli il suo stomaco vigoroso nessun bisogno fittizio di digestivi, deliberava tranquillamente sul modo di terminare la sera, quando il cameriere dell’albergo, soprannominato Piedolce, gli si avvicinò recandogli su d’un piatto di maiolica una grossa lettera e mezza dozzina di sigari.

Patrizio guardò sospettosamente e l’una e gli altri; dichiarò subito i sigari cattivi e riconosciuta la calligrafia della lettera, si disponeva a farle subire la solita trasformazione alata — ma un urgentissima scritto in stampatello, colla erre all’antica, gli fece cambiare pensiero.

«Che c’è di nuovo? — pensò. — Il mio tutore è forse moribondo? I rispettabili elettori del mio paese nativo mi vogliono deputato? O sarebbe la Società cattolica per i buoni costumi che mi ha decretato il premio della continenza?»

Egli era ben disposto — l’ho già detto; — la zuppa di trippe scendendo regolarmente nel suo ventricolo giovanile, gli accelerava i moti del sangue diffondendo in tutto il suo essere quella sensazione intima di appetito soddisfatto che predispone alle più nobili azioni.

Dissuggellò la lettera del tutore e lesse attentamente:

«Caro Patrizio, io m’accorgo pur troppo che tu cammini sulla strada della perdizione.»

Patrizio si interruppe. La strada della perdizione colle cento lire insieme era tollerabile, ma così asciutta asciutta, non gli andava per nessun verso. Tuttavia, continuò a leggere:

«È questa la terza lettera che ti scrivo sopra un