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Perchè sono celibe. 177


Sono galantuomo e cristiano; la polizia e la parrocchia ne possono far fede.

Tutti mi chiamano e mi chiamarono sempre un buon figliuolo; diffatti non ho mai fatto male a nessuno — non ho lasciato debiti all’oste, non ho sedotto o tradito l’innocenza, non ho cospirato contro il governo, non ho rifiutato e non rifiuto mai la mia borsa agli amici.

Possiedo — in proprio — quattro camere decentemente mobigliate, sei posate d’argento, otto paia di lenzuola e tre tovaglie di Fiandra.

Per temperamento e per educazione conduco una vita sobria, regolata e casta — non che io sia totalmente insensibile alle attrattive delle figlie d’Eva, ma a conti fatti, fisico, morale e pecunia, trovo che non mi conviene.

Non giuoco, non bevo, non fumo.

Su per giù potrei dirmi un uomo felice se — ahimè! — se avessi moglie. Diffatti, non vi sembra, o lettori, che io abbia tutte le qualità, tutti i requisiti matrimoniali?

Ma la mia fatalità è appunto di avere troppi meriti — voi dubitate, ne ero certo — eppure nulla di più vero. Due per lo meno li ho d’avanzo: buon cuore e incapacità di fingere. In causa di queste doti ho perduto due matrimoni — non voglio fare un giuoco di parole perchè detesto i giuochi anche di parole. Ma vi racconterò genuinamente i fatti, tralasciando quelli che non si riferiscono alle qualità sopradette perchè mi condurrebbero troppo lontano.

Dopo i disinganni della primissima gioventù; dopo