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La mia vicina. 115

tava l’abbaino faceva risuonare gli echi di quella solitudine, cantarellando colla sua voce fessa:

Con qual cuor morettina tu mi lasci,
Con qual cuor, con qual cuor...

A furia di ascoltarlo e di non udire altra voce nè altre parole ripetevo anch’io macchinalmente:

Con qual cuor, con qual cuor...

I bottoni erano scuciti tutti; li raccolsi infilandoli in un’agugliata di cordoncino rosa e mi augurai che la vicina tornasse a casa per andare a riportarglieli.

Ma la vicina non tornò — e il gobbetto continuava a cantare «con qual cuor ed io a ripetere e con qual cuor» — finchè udii un fruscio di vesti sulla scala, corsi fuori, ma erano due zitellone del terzo piano che avevano pranzato extra muros e ritornavano con un cartoccio di dolci ciascuna.

L’un dopo l’altro rincasarono tutti, i lumi si spensero, le ciarle e i rumori tacquero; anche il gobbetto finì di cantare.

Lettori! io andai a letto.

Ma prima — ed è qui che mi lusingo di conciliarmi la benevolenza delle lettrici — prima, scrissi su d’un elegante foglietto di carta inglese, lucida, senza righe queste tre parole: «Buona sera, vicina.»

E uscito pian piano sul ballatoio, feci passare il bigliettino nel buco della toppa.

Una vaga agitazione mi impediva di pigliar sonno. Visioni liete e malinconiche mi passavano alternativa-