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d’angelo o di fata. Un dolce tumulto di memorie, di sogni giovanili, un’eco di canti lontani, tutto un mondo sfumato, svanito, gli colorì lentamente le guancie, come se gli fosse passato accanto un soffio dei suoi vent’anni.
Scosse il capo, dubbioso, preso da un’improvvisa tristezza; e tornò davanti al caminetto, ritto, guardando la fiamma.
L’idea fissa lo incalzava: — Come tutto cambia! Laggiù, in quella grande scatola giapponese, ci doveva essere ancora l’ultima bambola di Lydia: una rosea bionda cogli occhioni provocatori; col petto riccamente imbottito; le braccia tonde, nude, lisce come raso; le gambuccie aggraziate di donna fatta. Teneva in mano — almeno quand’era nuova — uno specchietto e un piumino di cipria.
La differenza era enorme colle bambole che egli aveva viste trascinare per casa cinquanta o sessant’anni prima; tutte di legno, piatte, angolose, con un cavicchio per ogni giuntura, i capelli formati con vecchie calze sfatte...