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vano d’attorno, che punzecchiava i loro istinti brutali colle voluttà dell’ignoto. Riparlò del rosso e di Daria, compiacendosi del profumo insolito che quelle due giovani figure portavano in mezzo alle interpretazioni oscene del loro affetto, come il somaro gode talvolta a ruzzolarsi nell’erba fresca e nei fiori del prato.

Il crocchio dei suoi avventori rozzi, ignoranti, maligni, oziosi, la stava ad ascoltare senza che uno solo provasse un movimento di sdegno e di rivolta.

Si divertivano. Comodamente sdraiati sulle panche o inquartati negli ampi seggioloni di cuoio unto, con un buon litro davanti, digerendo lo stufato del desinare, quelle ciarle leggiere, piccanti, tenevano le veci di spettacolo comico.

Odiavano tutti Ippolito per istinto, e si trovavano vigliaccamente soddisfatti nel sentirne dir male. Tratto tratto qualcuno buttava là un frizzo grossolano, audace, accolto sempre con uno scoppio di risa grasse fra cui dominava lo squillo convulso della signora Ernesta.

Il signor Giacomo Rossetti, col capo ciondoloni sul petto, e le gambe larghe, sonnecchiava, scuotendosi ad ogni mezz’ora per tirare un lungo respiro, beato in quel tepore di stalla umana misto di aliti e di odor di vino.