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tato attentamente, cogli occhi luccicanti, colle labbra semiaperte, concentrando le deboli forze del suo cervello nel seguire la ridda fantastica di tutti quegli animali, passando dal sapore della pernice al sapore del porchetto, confondendosi col tordo e colla pollanca, inquietato un poco dall’oliva, che a lui non piaceva affatto. Il signor Giacomo e la signora Ernesta lo guardavano, godendosi la sua sorpresa, finchè egli punto nell’amor proprio di gastronomo volle pigliare una rivincita.

— Ecco — disse — sentite un po’ questo e andatevi a nascondere con tutte le vostre diavolerie. Si prende una quaglia, la si fa cuocere, le si levano le ossa, si pesta nel mortaio; poi si prende un tartufo bianco, lo si scava col coltello, lo si riempie colla quaglia, si tura il buco e lo si mette al forno. Leccatevi i guanti se ne avete!

— Bravo! Bene! Viva don Pacchia!

— Già — disse il signor Giacomo rivolto all’ostessa — i preti in tutto e per tutto ne sanno sempre più di noi.

— Causa il latino — saltò su un giovinotto.

— È proprio una vecchia rimbambita quella Tatta — disse l’ostessa, seguendo il filo dei suoi pensieri — a lasciarsi venire per i piedi il rosso; un mobile! Già quando non si ha cuore nemmeno per sua madre.... lo sapete tutti come fu in-