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sigaro in bocca, palpando il cappello che non sapevano bene se tenere in testa o dove, vergognosi di doversi presentare a due signorine — essi abituati colle serve e colle donne del contado a una famigliarità triviale.

Quei giovani poi sudati ed ansanti, s’erano riversati nell’osteria portando alimento alla insaziabile curiosità della signora Ernesta che, adagiata nella sua grascia quarantenne, gongolava e tripudiava a qualsiasi cosa le stuzzicasse, attraverso la densità dell’epidermide, il senso grossolano di materia viva che teneva in lei il posto di pensiero.

La sua faccia dalla fronte depressa, sviluppata enormemente nelle mascelle come è proprio delle razze inferiori, si sporgeva in avanti, ridendo di un riso denso e sonoro che si comunicava alla pingue persona discendendo, agitandole i fianchi, per morire in uno spasimo voluttuoso di carne soddisfatta.

— E lei? E lui? La teneva stretta eh? la conduceva negli angoli bui? Chi sa cosa avranno fatto! Ditemi tutto, ditemi tutto. Si sono baciati?

Queste interrogazioni incalzanti la signora Ernesta le frammezzava con queste altre, pronunciate in tono diverso, con un sentimento d’orrore