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della vecchia e peccatrice Università di Pavia. Sembrava ch’egli dovesse fare lo studente a perpetuità; certo che quella vita gli piaceva sopra tutte le altre; alla fine d’ogni anno si accomodava sempre in modo che dovesse rimanervi un anno ancora.
Le virtù casalinghe e morigerate di un giovane ben pensante (se caso mai esistevano allo stato d’embrione nei bernoccoli del suo cranio) non avevano preso uno sviluppo visibile. Una foresta — non vergine, oimè! — di capelli biondi gli recingeva la fronte spaziosa, e l’occhio sereno, audace, vibrava lampi continui sulla sua fisonomia birichina. Aveva i baffi sottili, i denti bianchi e un piccolo nèo sotto la guancia. Era bello, gentile e scapestrato anzi che no.
Il suo tutore gli scriveva tutti i mesi una lettera commovente di questo tenore:
«Io m’avvedo pur troppo, caro Patrizio, che tu cammini sulla strada della perdizione; il tuo patrimonio è sciupato; ti mando le ultime cento lire; provvedi alla tua esistenza perchè sei rovinato.»
Patrizio prendeva nota delle ultime cento lire, ben persuaso che non sarebbero state le ultime definitive, e colla lettera fabbricava degli uccelli