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timana Chiarina ebbe il suo bel da fare a metterla a posto tutta nella esigua botteguccia.
La voce anonima che si incaricava in ogni circostanza di dirigere l’opinione del paese non mancò anche questa volta di pronunciare:
— Vedrete che quei due ragazzi si mangiano fuori in un momento l’eredità della signora Firmiani.
E non doveva andar molto che la condotta di fratello e sorella prestasse di nuovo il fianco alla critica, poichè la relazione tra Chiarina e la maestra si faceva sempre più amichevole e Giovanni col suo sottile intuito si associava volentieri a rapporti che li avrebbe conservati in una sfera un po’ al di sopra della comune volgarità; la solita voce ribatteva:
— Hanno della superbia e niente altro.
Ma quella di Giovanni era la superbia buona, la superbia che fa tendere all’altezza non solo per raggiungerla, ma per rendersene degni. Di ciò che pensavano in paese non si preoccupava affatto. Lavorava assiduamente, alacremente, con piacere. Quel correre avanti e indietro sul biroccio del carrettiere non era per lui un esercizio vuoto. Si può dire che ad ogni viaggio imparava qualche