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quell’amore giovanile tutto pieno di letizia che fioriva sul lutto di casa Firmiani come la magica rosa nel roveto.
— Non ti sei accorta tu che volevo bene a Giovanni?
— Bene sì, ma...
— Già, già, non puoi intendere.
Quante volte Chiarina si era trovata dinanzi a quel sorriso misterioso, a quel compatimento benevolo, a quella persuasione che ella fosse totalmente estranea all’amoroso turbamento! Nessuno sospettava neppure che il gracile petto evanescente sotto gli sciallini color foglia morta avesse conosciuto l’ansia delle lunghe attese e il balzo repentino del cuore che si slancia verso l’oggetto amato. Se ella aveva desiderato e pianto in segreto, se aveva conosciuto i sogni deliranti e le veglie desolate, se aveva pronunciato mille volte per sè, dentro di sè un nome adorato, nessuno lo sapeva. Questa era la sua gioia e il suo tormento insieme: gioia ideale del credente che custodisce la sua arca santa; tormento umano della creatura che si trova disgiunta dalle compagne, isolata nel palpito che commove e tiene unito l’universo.
Ma l’amore di Chiarina, tutto fatto di rinuncie altruistiche, non aveva lasciato albergare nella sua compagine alcun basso sentimento di invidia. Dolce sempre anche nella malinconia, e sempre preoccupata della felicità di coloro che essa amava, sorrideva alla giovine coppia, che il destino aveva prescelta per formare i pochi felici concessi alla terra. Materna nel suo profondo e retto istinto femminile, se al suo fianco non era riserbata la grazia del procreare, ella si sentiva madre per lo slancio ardente dell’affetto, per l’intelligenza della comprensione, per la spontaneità della dedizione. Era così che intendeva la sua parte di donna. Quale madre avrebbe operato meglio di lei per i suoi fratelli? e per i Firmiani tutti indistintamente? e per