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Chiarina allora si pose a guardare con terrore quelle tenebre giornaliere che avviluppavano la città, che la accrescevano nel mistero fino a raggiungere proporzioni fantastiche e si domandava se ella avrebbe mai potuto frangere quella nebbia, attraversare tutte quelle vie, quelle piazze interminabili che udiva nominare — tutti i giorni un nome nuovo — e che nel caleidoscopio delle immagini suscitate le facevano intravedere una Milano gigantesca, mostruosa, di una grevezza di incubo.
Che cos’era ella mai in quella grande città, se non una goccia nel mare, un granello di sabbia nel deserto?... Ospitale in simili ore di sfiducia e di abbandono e caro come il grembo dove il fanciullo si riposa, le tornava, dopo gli sforzi fatti, quel suo piccolo spazio dietro il banco dove la modestia e l’esiguità della breve parete armonizzavano così bene coi suoi sentimenti e colle sue abitudini. Ella vi si rincantucciava e saliva all’alta sedia, non come una regina in trono, ah! no, ma come un povero uccellino stordito dalla tempesta ripara nel nido.
Gli avventori la trovavano là, instancabile nella