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La verità è che, issata là in alto colla sua figurina di cera minuscola e composta, aveva un po’ delle terrecotte quattrocentesche, quei bassorilievi ingenui e toccanti che si ammirano ancora nelle opere dei Della Robbia, dove la bellezza è così recondita che non veste nessuna forma riconosciuta e l’anima sola sa trovarla nell’involucro primitivo. Chiarina a venticinque anni aveva un piccolo volto senza splendore, di una pallidezza di vecchio avorio con qualche striscia rugginosa; aveva i capelli neri senza riflessi e i denti bianchi senza luminosità. I suoi occhi, che la nonna Firmiani paragonava al fiore delle veroniche, erano al pari di quel fiore muti e tristi. Nella sua attitudine, ne’ suoi gesti, nelle sue parole non squillava la fanfara audace della giovinezza, ma erano i movimenti e i suoni che venivano da lei come una musica smorzata di cornamuse lontane. Prediligeva nelle vesti colori oscuri; non il nero deciso, ma certi bruni di foglia morta, certi grigi di fumo e di ombra che non accentuavano nessuna linea e dentro i quali scompariva la lieve materialità del suo corpo.