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Sulle prime Costantino gli prestò fede e gli pose una forte simpatia nonostante la sua losca figura; poi, di giorno in giorno i racconti del maresciallo variando e diventando sempre più iperbolici, anche lui (come gli altri condannati che disprezzavano il re di picche, ma lo adulavano per servirsene) cominciò a diffidare.
Del resto s’accorse che tutti là dentro, compresi i guardiani, erano bugiardi e felini. I condannati avevano bisogno di nascondere il loro vero essere, di immaginarsi cose fantastiche per il passato e per l’avvenire, d’ingrandirsi agli occhi dei compagni di sventura.
Costantino osservò con meraviglia che i condannati a pene maggiori erano i meno cattivi, sebbene i più vanitosi e bugiardi. Dei meno delinquenti alcuni si odiavano fra di loro; erano vili, facevano la spia; gli altri si servivano a vicenda finchè potevano ritrarne utile, e si tradivano, se occorreva, amici mai. Il re di picche diceva a Costantino:
— Una profonda corruzione rode quasi tutti i condannati, molti dei quali sono veri delinquenti rotti ad ogni vizio. L’aria stessa è pestifera. L’uomo che viene tolto dalla società, privato della libertà, nel luogo del castigo s’infracidisce completamente, perde ogni avanzo di senso morale, diventa bugiardo, vile, feroce, corrotto fino all’incoscienza della corruzione.
E gli raccontava cose spaventevoli.
— Secondo me, — proseguiva, — di onesti qui dentro ci siamo noi due, il Collo d’anitra