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Durante l’ora d’aria Costantino conobbe un suo compatriota, un sardo che veniva chiamato re di picche, forse perchè aveva una figura triangolare, con un grosso corpo e due piccolissime gambe sottili; paffuto, pallido, si faceva radere i capelli in modo da parere calvo.

Era un ex maresciallo dei carabinieri, condannato per peculato: si diceva parente d’un cardinale, a sua volta amico del re e della regina; quindi aspettava di giorno in giorno la grazia, non solo, ma prometteva di far graziare i condannati che gli regalavano sigari, denari e altro. Addetto all’ufficio degli scrivani e potendo quindi comunicare con l’esterno, favoriva le corrispondenze clandestine dei condannati coi loro parenti, e riusciva ad introdurre nello stabilimento denari, tabacco, francobolli e liquori, profittandone largamente.

A Costantino offrì subito la grazia sovrana e gli chiese se voleva mandare qualche lettera al suo paese.

— Sì, — disse il giovine ma io non ho nulla da darle: sono povero.

— Ebbene, non importa, siamo compatrioti, — disse generosamente l’altro. E subito gli raccontò le sue prodezze da maresciallo: aveva ammazzato più di dieci banditi, aveva dieci medaglie, e una volta era stato a Roma e il re lo aveva invitato al suo palco in teatro. Infine era un eroe. Però non raccontava mai la sua ultima prodezza; solo diceva di essere in reclusione per opera dei suoi nemici invidiosi.