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— Ehi là, — gridò al condannato, — che mestiere sapete fare, voi?

C’era anche don Serafino, che volgeva il condannato il suo viso di scheletro, e il condannato, ricordando tutte le sue fandonie, rispose che sapeva fare le scarpe.

Il guardiano gli fece poi sapere che in breve l’avrebbero tolto di cella, diminuendogli la segregazione. Costantino pensò di dover questa grazia alla sua buona condotta, ma don Serafino gli confidò d’aver interceduto per lui presso persone potenti, poichè lo credeva davvero di famiglia nobile.

Pochi giorni dopo fu messo in camerata e cominciò a lavorare da calzolaio assieme con altri condannati. In questi giorni potè anche mandare sue notizie a Giovanna: gli era permesso di scrivere ogni tre mesi. Egli si sentiva quasi felice. E poi veniva la primavera, e i condannati, che avevano sofferto intensamente il freddo, prendevano un’aria allegra. Nella camerata dove Costantino lavorava, si scherzava sempre. Solo vi erano due fratelli che dopo aver chiesto in grazia di esser messi a lavorare assieme, litigavano di continuo per certi interessi da accomodarsi dopo la loro condanna, cioè fra dieci anni. Un giorno si bastonarono, ed uno fu portato via; scontarono due settimane di cella, poi, quando si rividero all’aria, cioè nell’ora di libertà che i condannati passavano nel cortile, si accapigliarono ancora.