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viso giallo sottilissimo, gemeva come un bambino.
— Oh, — diceva col capo penzoloni, ansante e spaurito, — io sognavo di essere a casa, ed ora... ed ora!... San Francesco bello, abbiate pietà di me...
Costantino, nonostante la sua angoscia sentiva pietà del compagno.
— Abbi pazienza, fratello caro, anche io sognavo d’essere a casa...
— Ah, mi pare che mi sfugga l’anima, — disse un altro. — Che diavolo ha questo bastimento? pare balli il ballo sardo! — e alcuni ebbero la forza di ridere.
La tempesta infuriò tutta la notte: a Costantino pareva di morire, e aveva paura della morte, sebbene la vita gli apparisse tutta fatta di dolore.
La sua anima parve imbeversi del liquido amaro ch’egli cacciava dallo stomaco convulso. Neppure nell’ascoltare la sentenza di condanna aveva provato una disperazione simile: cominciò anche lui a gemere, a imprecare, stringendo i pugni e contorcendo le dita dei piedi gelati.
— Che tu possa morire così, come muoio io, cane omicida che mi hai rovinato... — diceva! e dai suoi occhi stillava lo stesso liquido amaro che gli avvelenava la bocca e l’anima.
Verso l’alba la tempesta cessò: ma anche dopo calmato il male, egli non ritrovò pace: gli pareva lo avessero bastonato a morte, e tremava di freddo, di debolezza, di paura.