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domita: passò Brontu col vestito nuovo, coi capelli lucidi di grasso; passò Giacobbe, con un paio di calzoni di tela nuova, rude, non lavata, che puzzavano ancora di bottega.

Isidoro continuava a cantare.

La chiesa finì col restare quasi deserta ed egli cantava ancora: la sua voce sonora risonava fra le bianche pareti polverose, sotto il soffitto di travi e di canne, fra gli altari umili, coperti di rozze tovaglie, adorni di fiori di carta, sui quali guardavano melanconici santi di legno, colorato.

Quando finì di cantare non c’era più nessuno, tranne il sacerdote e un ragazzo che smorzava i lumi, zia Bachisia e un vecchio cieco: quindi dovette ripetere da solo il ritornello delle laudi, poi si alzò e depose il campanello del quale si serviva per segnare le poste del rosario. Zia Bachisia l’aspettava vicino alla porta; uscirono assieme ed ella gli diede i saluti di Costantino, poi gli domandò un favore; di pregare prete Elias perchè si degnasse d’andare a trovar Giovanna e farle una predica onde distoglierla dalla sua disperazione.

Egli promise e zia Bachisia si allontanò; nello stradale fu raggiunta da Giacobbe Dejas.

— Come state? — domandò il servo.

— Ah, Dio mio, stiamo male senza esser malate! E tu come ti trovi coi nuovi padroni?

— Ah, ve l’ho già detto! Son caduto dalla padella nella brace. La vecchia è avara come il diavolo; vorrebbe che mi cascassero le viscere