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uomo di mondo (così egli diceva) per offendersi, e si avanzò sorridente e lieto.

— Scommetto, — disse, portandosi un dito al naso — scommetto che parlavate di me.

— No. Parlavamo di quel povero Costantino Ledda.

— Ah, sì, povera creatura! — disse Giacobbe, facendosi serio. E dire che è innocente! Innocente come il sole! Nessuno meglio di me potrebbe affermarlo.

Brontu si mise in posa, accavallando le gambe, rovesciandosi un po’ indietro e mostrando i denti come faceva con le donne.

— Le opinioni sono varie! — disse con voce nasale. — Mia madre, per esempio, ha sognato che lo avevano condannato alla morte.

— O no, Brontu, cosa dici! Ai lavori forzati!

— Be’, fa lo stesso. Parliamo di noi.

Parlarono e conclusero l’affare del servizio: poi i due uomini uscirono assieme, e Brontu condusse il nuovo servo alla bettola: poichè non era avaro, Brontu, e se qualcuno andava a trovarlo a casa non gli dava un bicchiere di vino per non irritare la madre, ma poi lo conduceva alla bettola, dove si mostrava generoso. Quella sera fece bere tanto Giacobbe e tanto egli stesso bevette, che si ubriacarono.

Usciti poi sullo stradale buio e silenzioso, fin dove giungeva il profumo aspro dei campi, ripresero a parlare di Costantino, e Brontu disse crudelmente che era contento della condanna.