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Giovanna entro casa e pregò la parente d’aiutarla a scaricare il cavallo; diceva con voce bassa:
— Siete pazze, davvero. C’è bisogno di pianger così, davanti a quella casa bianca? Vedo la testa d’uccello di comare Malthina. Ah, essa sarà contenta del nostro male...
— No, — disse la parente, — essa è venuta più volte ad informarsi di Costantino e si è mostrata dolente: mi disse d’aver sognato che l’avevano condannato ai lavori forzati.
— Ah, è il dolore del cane rabbioso: eh, io la conosco la vipera velenosa, essa non può perdonarci. D’altronde, — aggiunse, avviandosi verso la porta con la bisaccia sulle spalle, — essa ha ragione; e non ce la possiamo perdonare neppure noi.
Zia Martina Dejas era la proprietaria della casa bianca e madre di quel Brontu Dejas che aveva già chiesto la mano di Giovanna ottenendone un rifiuto. Era molto benestante, ma avara, e zia Bachisia s’ingannava credendosi odiata da lei, perchè la vecchia Dejas era rimasta indifferente al rifiuto.
— Ecco, — disse zia Bachisia, quando il cavallo fu scaricato, — fammi ancora un piacere, Maria Chicca, va e riconducile il cavallo; e diglielo pure che Costantino è stato gettato per ventisette anni in reclusione: poi osserva il viso che fa.
La parente afferrò subito la briglia del cavallo che era stato preso a nolo dai Dejas, e andò