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riccia a secco dei cortile delle due donne, si sporgeva sul sottostante stradale, di là dal quale cominciavano i campi.

Qua e là sullo spiazzo, sotto il mandorlo, davanti alla casetta scura delle Era e davanti alla casa bianca dei Dejas, posavano grosse pietre che servivano da sedili. Lo spiazzo, così, era un gran cortile comune a tutto il vicinato.

Appena arrivata, Giovanna si lasciò scivolare dal cavallo, e indolenzita e curva andò verso una donna, una parente alla quale aveva lasciato in custodia la casa, che le veniva incontro col bambino fra le braccia. Glielo tolse, se lo strinse forte al seno e ricominciò a piangere, nascondendo il viso sulla piccola spalla innocente. Il suo pianto era calmo, d’una disperazione profonda: le pareva che il dolore fino allora provato fosse nulla in confronto al dolore di adesso. Il bambino, di appena cinque mesi, con un visetto un po’ ruvido e due grandi occhi violacei lucenti, con una cuffia rossa, dura, circondata di frange che nascondevano la piccola fronte, aveva riconosciuto la madre, e le aveva afferrato forte forte un lembo del fazzoletto, scuotendo i piedini e facendo:

— Ah, aah, aaah...

— Malthinu mio, Malthineddu mio, mio solo bene in terra, il tuo babbo è morto... — disse Giovanna piangendo.

La parente capì che Costantino era stato condannato a gravissima pena e cominciò a piangere anche lei; zia Bachisia sopraggiunse, spinse