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Intanto Giovanna, che alle esortazioni di Paolo s’era calmata, promise di non far scene se la lasciavano rientrare nella sala. Rientrarono tutti assieme; mentre i giurati riprendevano i loro posti, dopo la breve deliberazione.

Un silenzio profondo regnò nella sala calda e cupa: Giovanna sentì una mosca ronzare intorno ad un ferro della finestra; poi le parve che tutte le sue membra s’appesantissero, che lungo il corpo, lungo le gambe, lungo le braccia, le si infilzassero delle spranghe di ferro gelido.

Il presidente lesse la sentenza con voce bassa e indifferente, mentre l’accusato lo guardava fisso col respiro sospeso. Giovanna sentiva sempre il ronzare della mosca, e provava un impeto d’odio contro quel l’uomo roseo dalla barba bianca, non per ciò che leggeva, ma perchè leggeva con voce bassa e indifferente. E quella voce bassa e indifferente condannava a ventisette anni di reclusione l’omicida che aveva premeditato lungamente il delitto e lo aveva compiuto sulla persona d’uno zio carnale suo tutore.

Giovanna era tanto sicura d’una condanna a trent’anni che ventisette le parvero assai di meno; ma fu un istante: subito calcolò che tre anni, in trenta, contavano niente, e si morsicò le labbra per non urlare. La vista le si ottenebrò. Con uno sforzo disperato di volontà guardò Costantino e vide, o le parve di vedere, il viso di lui grigio e invecchiato, e gli occhi velati e smarriti nel vuoto. Ah, egli non la guardava; non la guardava più neppure! Era