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Egli stava nella gabbia come un grande uccello fremente, tra le figure granitiche dei carabinieri, e guardava verso di lei, ma senza più sorriderle. Sembrava oppresso da una cupa tristezza, e davanti a quegli uomini arbitri del suo destino, i suoi occhi limpidi di bambino s’offuscavano di terrore.

Anche Giovanna si sentì prendere il cuore da una mano di ferro; a momenti quella stretta le dava punture di dolore fisico.

L’avvocato, un piccolo giovine giallo-roseo, aveva cominciato a parlare con una vocina stridula di donna: la sua difesa era stata abbastanza disgraziata; adesso egli ripeteva le cose già dette, e le sue parole cadevano nel vuoto, come stille d’acqua in una grotta.

Il pubblico ministero dai baffi dritti conservava la sua aria truce: qualche giurato credeva di far molto mostrando un viso paziente; gli altri, a giudicarli bene, si capiva che neppure ascoltavano. Soltanto zia Bachisia e Giovanna e l’accusato ponevano mente alla replica della difesa, e più l’avvocato parlava più si sentivano perduti.

Qualche altra persona giungeva, e Giovanna ogni tanto si volgeva vivacemente per vedere se Paolo veniva. Non sapeva perchè, ma lo aspettava ansiosamente, quasi la presenza dello studente potesse giovare all’accusato.

Quando l’avvocato tacque, Costantino balzò in piedi, si fece rosso e chiese di parlare.

— Ecco..., ecco... — disse con voce incerta,