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aveva gelato il sudore; il suo viso s’era fatto pallido e i denti gli battevano forte. S’avviarono alla casa di zia Anna-Rosa, e Isidoro, che aveva completamente dimenticato la sua cena, seguì la strana compagnia.
— L’hai uccisa? — domandò al malato, ricordando che chi uccide la tarantola col dito anulare conserva la virtù di guarirne il morso col solo tocco dello stesso dito.
— No, — disse Giacobbe. Poi, fra il suono della cetra e il canto delle donne, con poche parole incisive raccontò la sua disgrazia. — Dormivo. Sento una puntura, come di vespa. Mi sveglio sudato. Ah, mi aveva punto; mi aveva punto la tarantola vile! La vidi con questi occhi; ma era sul muro, già lontana. Ah, che il diavolo ti morda, mala femmina! E son tornato. Sentite, io ho paura di morire. È da tanto tempo che ho paura di morire.
— Noi morremo tutti, quando sarà giunta l’ora, — disse gravemente Isidoro.
— Sì, morremo tutti, — confermò uno degli amici. Ma ciò non confortò Giacobbe Dejas.
— Ho le gambe spezzate, — diceva egli, lamentoso. E la schiena? Ah, la mia schiena pare sia stata colpita con la scure. Io morrò, io morrò...
La gente usciva sulla strada per vedere il gruppo, ma tutti guardavano in silenzio, come se passasse un funerale. Gli occhi di Giacobbe si velavano: d’un tratto barcollò e s’appoggiò ad Isidoro.