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Intanto il gruppo s’era avvicinato al rialzo; i due uomini, che erano armati di zappe, cominciarono a scavare una buca, e Isidoro rimase vicino a Giacobbe, fra le donne che cantavano e il cieco che suonava.

Giacobbe taceva e guardava l’opera dei due amici: Isidoro invece fissava il malato; gli sembrava un altro, tanto era cambiato, col viso rosso, infiammato, scavato da una espressione di sofferenza nervosa, e i piccoli occhi, già così furbi, sotto le sopracciglia nude, velati da una puerile paura della morte. Finito l’ultimo verso, le donne ricominciavano dal primo, e il suono della strana cetra ripigliava il motivo stridente e monotono, che assomigliava al ronzìo delle api.

Aliti di vento gelato venivano dal lucido occidente, passando come lame taglienti sul viso delle persone radunate sul rialzo: e la luminosità fredda del crepuscolo spandeva una infinita tristezza sull’altipiano già nero, sul paesetto nero, su quel gruppo di persone nere che compievano un rito superstizioso con fede da selvaggi idolatri.

I due uomini scavavano la buca con alacre ardore: la terra veniva su nera, mista ad immondezze fracide, a cocci, a stracci: i due scavatori se la rigettavano nonostante sui piedi e sulle gambe, salivano sul mucchio, si curvavano sempre più, ansavano, sudavano, mentre le donne cantavano e il cieco suonava.

Isidoro e zia Anna-Rosa. la cui bocca non cessava di aprirsi rotonda per emettere quel sot-